a cura di Mascia Mancini
“Made in Italy” significa, letteralmente, fatto in Italia ma cosa si intenda di preciso con questa espressione è molto più complesso da spiegare. Sebbene ci sia un richiamo all’italianità nel mondo, entrano i gioco diversi fattori che rendono difficile una definizione chiara.
Da sempre, il settore dell’agroalimentare o, per essere più precisi, quello dei prodotti agricoli da una parte e quello di cibi e bevande dall’altra è stato uno dei pilastri del Made in Italy, garantendo il successo del sistema produttivo italiano a livello nazionale e internazionale e contribuendo alla costruzione dell’immagine dell’Italia come paese di produzioni a elevato valore aggiunto. Nel 2017, l’industria alimentare italiana ha fatturato 134 miliardi di euro, un valore peraltro invariato rispetto agli anni precedenti. Il fatto che non sia diminuito lo si deve al significativo incremento delle esportazioni.
Il settore agroalimentare italiano rappresenta un’eccellenza che primeggia sul piano della qualità, della sicurezza alimentare, dell’innovazione tecnologica d’avanguardia, della sostenibilità, della biodiversità e del rispetto della tradizione. L’Italia è, infatti, un paese caratterizzato da grandi diversità territoriali e climatiche che si sono plasmate in culture, storie e tradizioni, eccezionalmente varie e uniche. Tali caratteristiche hanno portato alla formazione di un gran numero di piccole aziende, spesso a conduzione familiare, che, di fronte all’impossibilità di competere sui mercati esteri in termini di riduzione del prezzo, hanno puntato alla valorizzazione dell’unicità dei prodotti.
Il Made in Italy rappresenta l’elemento di punta delle esportazioni italiane, in termini di tecnologie applicate al settore e di procedure di trasformazione delle materie prime.
L’Italia è, per sua natura, un importatore di materie prime. Si è specializzata nell’esportazione di prodotti trasformati “in casa”. Spesso il Made in Italy è sinonimo di manufatto, di saper fare o di competenza acquisita nei processi di lavorazione del semilavorato.
Il Made in Italy può essere definito in funzione della componente geografica e territoriale, come nel caso dei prodotti DOP e IGP. Questo sistema di classificazione valorizza l’origine territoriale della materia prima o/e dei processi di trasformazione, che costituiscono dei punti di forza, legati all’aspetto normativo sotto il profilo della sicurezza e qualità. Questa definizione, però, restringe il campo del Made in Italy escludendo parecchie realtà commerciali, oggi identificate come il fulcro dell’agroalimentare italiano.
L’Inea ha proposto una definizione alternativa di Made in Italy, che tiene conto dei gradi di trasformazione dei prodotti e del saldo commerciale positivo per un periodo di tre anni.
Questo tipo di classificazione, basata sui livelli di trasformazione, differenzia il Made in Italy in:
• agricolo (riso, frutta fresca, ortaggi)
• trasformato (vino, succhi di frutta, olio)
• industriale (pasta, caffè).
Ciascuna voce implica un livello di lavorazione più complesso rispetto alle precedenti. Questa è la definizione più completa, che racchiude il 70% delle esportazioni agroalimentari. La possibilità che i prodotti alimentari italiani vengano classificati come Made in Italy, rappresenta un incentivo allo sviluppo dei volumi di export in un contesto globale.
Il Made in Italy è la massima espressione della qualità agroalimentare nel mondo.
Qualcuno ha osservato che, di fronte al cibo e alle bevande, gli europei si dividono in due grandi scuole di pensiero: c’è chi lo considera “arte” e chi lo considera “carburante”; inoltre, si pensa che il segreto del successo della cucina italiana sia nel suo porsi sensatamente a metà strada fra queste due visioni. Ammesso che ciò sia vero - ed è ragionevole crederlo - si può provare a tradurlo dicendo che quanto mangiamo e beviamo dev’essere, al tempo stesso, buono, nutriente (nel modo giusto), sicuro ed economicamente accessibile. È un obiettivo raggiungibile?
La riflessione continua. La pasta è fatta con il 60% di grano duro proveniente dall’estero, il 40% del pane è fatto con grano proveniente oltre i confini come anche l’80% del latte e dei suoi derivati; sono esteri anche il 66% dei prosciutti, il 50% dell’olio di oliva, il 90% del tonno è oceanico e dall’Olanda importiamo 50 mila tonnellate di pomodori da tavola. Allora la domanda nasce spontanea: dov’è il tanto decantato Made in Italy? Nei supermercati si vende tranquillamente l’olio “mediterraneo” per dire che non è italiano. È un problema di prezzi visto che lo si trova a pochi euro al litro, senza i necessari controlli capillari che, al contrario, garantirebbero la qualità dei prodotti.
A chi domanda dove sia il Made in Italy, le grandi industrie alimentari italiane rispondono che è nel “chi” produce e nel “come” lo fa, mentre l’origine geografica della materia prima, in sé, non è decisiva e neppure rilevante. Detto con il linguaggio contemporaneo, la globalizzazione dei mercati e la strutturale carenza di materie prime nazionali nel mercato agro-zootecnico rendono certi integralismi del tutto irrealistici e non in linea con la nozione doganale di «Made in» vigente nell’Unione Europea, che si basa sull’ultima trasformazione sostanziale dei prodotti. E come prova del nove di questa affermazione portano proprio l’esempio della pasta: se davvero la differenza stesse nell’origine geografica della materia prima impiegata, allora la Russia o il Canada dovrebbero fare la pasta più buona del mondo. E invece la importano dall’Italia dopo averle venduto il loro grano. Ma non è solo un fatto di quantità e di qualità; è, anche, un fatto di prezzo.
La diminuzione del valore delle vendite di prodotti alimentari registrato in Italia negli anni della crisi è la conseguenza dei miliardi di atti di acquisto individuali che il consumatore, vistasi ridurre la propria capacità di spesa, ha compiuto al supermercato. Chi può onestamente negare che oggi, davanti allo scaffale, la prima cosa che si cerca non sia la marca ma la marca in promozione, se non la promozione e basta?
Non che improvvisamente il gusto degli italiani sia morto. Anzi, a giudicare da certi fenomeni, mai come oggi questo sembra godere di ottima salute: a qualsiasi ora del giorno la tv mostra persone, famose e non, da 5 a 90 anni, che cucinano o ambiscono a un futuro in cucina. E poi ci sono le star che consigliano, aumentano gli incassi del proprio ristorante o ne inaugurano un altro, scrivono libri e dispense e aprono blog. Più che con l’arte il cibo sembra ormai coincidere con la vita e riempirne completamente il senso.
Dov’è la verità? Probabilmente nel mezzo, come al solito. Si possono, e si devono, mangiare cose buone, garantite e che non costino un occhio della testa. Dunque, da una parte, leggi dello Stato che assicurino al consumatore il massimo dell’informazione e dei controlli su ciò che acquista; dall’altra, produttori e distributori, meglio ancora se insieme alle istituzioni, impegnati a garantire per ogni prodotto il più alto livello possibile di bontà, qualità, sicurezza ed economicità. Iniziative in tal senso non mancano e altre, importanti, stanno per arrivare. Con un obiettivo: far coincidere il Made in Italy con il Made for Italians.